Un uomo nato nel 1875 osserva il mondo accendersi di luce elettrica, il cinema che inventa nuovi sogni, la scienza che cambia le regole. Nel mezzo di questa scossa culturale, Carl Gustav Jung decide di guardare dove pochi osavano: nell’ombra delle persone, là dove il rimosso parla a bassa voce e chiede attenzione.
Prima una precisazione utile. L’espressione “padre della psicoanalisi” appartiene storicamente a Freud. Jung fu il principale allievo e poi il grande dissidente. È il fondatore della psicologia analitica, una via parallela che ha dato al Novecento idee diventate lingua quotidiana: inconscio collettivo, archetipi, ombra, individuazione.
Tra scienza e mito: il laboratorio interiore
Jung si forma come psichiatra in Svizzera, lavora al Burghölzli di Zurigo, dialoga con Freud dal 1907 al 1913 e poi si separa. Studia i sogni come mappe, i simboli come bussole. In “Psychological Types” (1921) introduce introversione/estroversione. In “Symbols of Transformation” (1912) lega mito e psiche. Nelle pagine del “Libro Rosso” (1913–1930; ed. 2009, Shamdasani) pratica l’“immaginazione attiva”, un metodo per dialogare con le immagini interiori senza censura razionale.
Non lavora solo tra libri. Si confronta con la fisica: con Wolfgang Pauli esplora la sincronicità (“The Interpretation of Nature and the Psyche”, 1952), un principio di coincidenze significative non riducibili al caso. L’idea non è una legge fisica; è una lente per leggere come senso e evento, talvolta, si incastrano.
Un esempio semplice. Una persona controlla tutto. Dice di odiare la rabbia. Eppure scatta al minimo imprevisto. In chiave junghiana, quell’energia negata abita l’ombra. Non scompare: entra di lato, guida i gesti, irrigidisce le relazioni. Qui Jung invita a un gesto controintuitivo: voltarsi e guardarla.
Il nucleo: accettare per trasformare
A metà strada, ecco il punto. La frase “Ciò che neghi ti soggioga; ciò che accetti ti trasforma” circola da anni come “aforisma di Jung”. Non esiste però una fonte primaria univoca nei “Collected Works”. Il senso, tuttavia, è pienamente junghiano: ciò che rimuovi ti domina, ciò che riconosci si integra. È la logica dell’individuazione: diventare interi, non perfetti.
Come si fa, concretamente? Tre pratiche sobrie: Diario onesto dell’ombra: scrivi quando scatti, invidia, paure. Nomina senza giudizio. Il nome disinnesca. Immaginazione attiva: siediti, richiama un’immagine o un personaggio ricorrente del sogno, dialoga a voce bassa. Stupisce quanto risponda. Revisione dei simboli: nota i temi che tornano (acqua, scale, case). Jung leggeva la “casa a piani” come metafora della psiche. È un buon inizio.
Sul piano clinico, la letteratura sulle psicoterapie psicodinamiche mostra esiti solidi a medio-lungo termine (es. rassegne di J. Shedler, 2010). Per la psicologia analitica in senso stretto, i dati sono più scarsi e non sempre omogenei; mancano metanalisi ampie e conclusive. È giusto saperlo.
Quello che resta utile, anche fuori dallo studio, è una postura. Lavorare con l’ombra non è indulgenza. È responsabilità: prendersi carico della parte che disturba per evitare che disturbi gli altri. È un atto di accettazione che apre la trasformazione.
Jung ci parla ancora perché non ci chiede di diventare qualcun altro. Ci chiede di diventare noi, con tutte le stanze della casa accese. Stasera, se una coincidenza ti fa sobbalzare o un’emozione “scomoda” bussa, prova a non scacciarla. Fermati, ascolta. E chiediti: cosa sta cercando di entrare nella mia storia proprio adesso? Riconoscerlo potrebbe essere il primo varco.
Riferimenti essenziali: C. G. Jung, Collected Works (Princeton University Press); C. G. Jung, The Red Book, ed. S. Shamdasani (2009); C. G. Jung & W. Pauli, The Interpretation of Nature and the Psyche (1952); C. G. Jung, Psychological Types (1921).


