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La Sensibilità nei Bambini: Perché Alcuni Sono Più Vulnerabili di Altri?

Un bambino si scioglie per una parola di troppo, un altro incassa e riparte. In mezzo, il nostro sguardo: stiamo vedendo fragilità o un diverso modo di sentire il mondo?

A casa, la scena forse è familiare

Marco piange perché la tazza blu non è pulita. Sofia inciampa, si rialza e chiede il pane. Due bambini. Stessa età. Reazioni opposte. Il primo pensiero corre alla forza di carattere. O alla “maledetta” suscettibilità. Ma la storia è più sottile. E più interessante.

All’inizio sembra capriccio

O educazione da rivedere. Poi noti il pattern. Rumori forti e Marco si irrigidisce. Luci intense e si stanca. Cambi il piano e il suo respiro si fa corto. Quando qualcuno lo corregge, lui sente quella frase sul corpo. Non solo nella testa. Qui entra in gioco una parola che pesa: sensibilità.

Non la svelo tutta subito

Restiamo un attimo sul campo. Ti è mai capitato di vedere un bimbo che “scansiona” la stanza? Occhi attenti. Pausa prima di parlare. Una domanda in più prima di agire. Spesso questi bambini amano i dettagli. Colgono sfumature emotive. Si accorgono del tono, non solo del contenuto. A volte fanno gol perché prevedono il passaggio. A volte crollano perché vedono troppe cose insieme.

Cosa cambia davvero

Dalla ricerca emerge che non parliamo di fragilità. Parliamo di temperamento e di un sistema nervoso più reattivo agli stimoli. Elaine e Arthur Aron hanno descritto il tratto di “sensory-processing sensitivity”: interessa circa il 15–20% della popolazione (Journal of Personality and Social Psychology, 1997). Non è un disturbo. È una variante. Thomas Boyce e Bruce Ellis l’hanno chiamata “orchidea e tarassaco”: alcuni bambini (orchidee) sono più sensibili al contesto; in ambienti buoni fioriscono molto, in ambienti duri soffrono di più (Development and Psychopathology, 2005).

Questo si lega alla teoria della “vulnerabilità/duttilità” o vulnerabilità differenziale

Belsky e Pluess (Psychological Bulletin, 2009) e una meta-analisi di Slagt et al. (2016) mostrano che i bambini con alta reattività emozionale non sono solo più vulnerabili al negativo. Sono anche più ricettivi al positivo. Tradotto: la qualità dell’ambiente educativo pesa di più su di loro, in entrambe le direzioni.

Sul fronte delle neuroscienze

alcuni studi in adulti ad alta sensibilità mostrano una maggiore risposta in aree legate all’attenzione e all’amigdala quando gli stimoli sono intensi o socialmente rilevanti (ad es. Acevedo et al., Brain and Behavior, 2014). Nei bambini, lavori sul “bambino alto-reattivo” (Kagan; Fox et al., 2001) indicano un profilo di reattività fisiologica più marcata. Il nesso causale preciso non è definito. La genetica contribuisce (varianti come 5-HTTLPR e DRD4 sono state studiate), ma gli effetti sono piccoli e dipendono dal contesto. Meglio parlare di reti di fattori, non di “gene della sensibilità”.

Cosa possiamo fare

Regola il carico sensoriale. Spazi ordinati. Rumore moderato. Routine prevedibili. Piccoli anticipo-cambi aiutano. Allena la regolazione emotiva. Nomina le emozioni. Respiri lenti a bocca socchiusa. Pause brevi prima di rispondere. Offri “scalini” sociali. Un compito alla volta. Un volto nuovo alla volta. Poi amplia. Usa feedback specifici. “Hai notato quel dettaglio e hai aspettato: ottima scelta.” Evita etichette come “troppo sensibile”. Proteggi il sonno e i tempi vuoti. Un sistema più reattivo recupera così la sua resilienza.

Un esempio concreto: la tazza blu

Anticipa la variante (“oggi verde”), valida l’emozione (“ci tenevi alla blu”), proponi una micro-scelta (“bevi qui o al tavolo?”). Non addolcisce tutto. Ma abbassa l’arousal e riattiva la parte riflessiva.

Non abbiamo numeri certi su quanti “bambini altamente sensibili” ci siano in ogni classe

Le stime oscillano intorno al 15–20%, ma variano per criteri e strumenti. Quello che sappiamo è sufficiente per un cambio di sguardo. La sensibilità non è un difetto da smussare. È un canale ad alta definizione. Quando il contesto suona bene, questi bambini sentono l’armonia prima degli altri.

La domanda, allora, forse è un’altra

e se non dovessimo “irrobustirli”, ma imparare a usare il loro radar per leggere meglio il mondo che condividiamo?

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